Nagarjuna e il procedimento delle quattro negazioni

Dicendo, come abbiamo fatto in precedenza, che il buddismo è una Via, affermiamo due cose: 1) che si tratta di un cammino personale, in quanto è ogni singolo individuo che percorre quel cammino a renderlo di fatto una via, e 2) che si tratta di un cammino globale, in quanto fenomeno storico, perché ogni singolo individuo che lo percorre è un elemento della Via; ogni descrizione, spiegazione, insegnamento, ogni manifestazione è un’indicazione relativa al percorso in via di svolgimento
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Per indicare come sia venuto svolgendosi, in questo senso, il cammino buddista, partendo da Sakyamuni fino allo Zen, esponiamo brevemente alcune indicazioni di una scuola buddista indiana che ci riguarda.
Accennavamo in precedenza al fiorire di letteratura buddista Mahayana fra il I e il V secolo d.C. Prendiamo in considerazione la scuola Madhyamika. Ne è ispiratore Nagarjuna, vissuto fra il 100 e il 200 d.C., riconosciuto in seguito fra i patriarchi indiani dello Zen. All’epoca in cui Nagarjuna visse, erano in atto accese dispute dottrinali circa la natura della realtà. Due scuole si fronteggiavano: una che attribuiva esistenza intrinseca a tutto ciò che è, e un’altra che negava all’oggetto qualunque esistenza. Nagarjuna critica entrambe le posizioni, sostenendo, attraverso il procedimento delle quattro negazioni, che non è possibile affermare né negare in modo definitivo ed esauriente l’essere o il non essere di qualsiasi cosa. Facciamo un esempio del suo modo di procedere: prendiamo in considerazione un qualunque oggetto, per esempio la penna con cui sto scrivendo. Non si può dire che è, in quanto ente autonomo a sé stante, perché altro non è che un insieme di vari elementi, a loro volta composti di elementi, e sussiste solo in virtù della relazione fra essi. Altrettanto non si può dire che non è, per il fatto che sto scrivendo con essa, la uso, funziona e si manifesta, sperimento il suo esistere. Neppure si può dire che è e non è contemporaneamente, in quanto dal punto di vista dell’essere il non essere è escluso (e infatti la posso utilizzare), e dal punto di vista del non essere l’essere è escluso (e infatti se separo i suoi elementi costitutivi alla ricerca del suo essere, essa non è più la penna…). Né, infine, si può dire contemporaneamente che né è né non è perché negandola la escludo e una volta esclusa non c’è più nulla da negare, per cui si tratta di una proposizione assurda. Non c’è modo dunque di dire l’essenza della realtà, che sfugge a ogni definizione, tanto soggettiva che oggettiva. Questa insostanzialità di ogni cosa è detta «sunyata», termine tradotto di solito come vuotezza o vacuità.

«Il metodo di reductio ad absurdum di Nagarjuna confina con uno scetticismo o nichilismo universale, ma tutti gli interpreti moderni mettono in guardia contro un’interpretazione nichilistica. La sua spiegazione delle affermazioni positive nel suo vocabolario filosofico è consistentemente negativa. "Ciò che è", "la verità in quanto tale" è identica al "vuoto". La "verità nel più alto senso", che è differente dalla verità temporanea del mondo fenomenico, è "l’indicibile", "l’impensabile". Questa vera essenza è inesprimibile, perché la vera essenza delle cose è al di fuori del regno della conoscenza umana e non può mai essere espressa a parole»."H.DUMOLIN, Zen Buddliism: A Hystory. I: India and China, Mactuillan, New York 1988"

Infatti Nagarjuna conclude il suo trattato con una Lode dell’incommensurabile, che scioglie l’impasse in cui la ragione è bloccata in un canto di lode elevato dal cuore alla realtà ultima che le parole non possono definire. Questa insostanzialità non deriva soltanto dall’impossibilità di definire qualunque cosa in termini assoluti, ma anche dalla transitorietà di qualunque fenomeno.

«Il concetto di impermanenza, difficile da comprendere per quello che è, non implica la negazione dell’esistenza delle cose. La nostra vita è un’unità di tempo che scorre. È come un vortice che si forma nella corrente. La corrente scorre senza sosta. Il vortice è prodotto da varie cause e condizioni proprio come la fiamma di una candela.
Questo è il principio dell’origine condizionata. Nel caso della fiamma varie cause e condizioni come il calore, l’aria, la cera ecc. generano la fiamma. Nel caso del vortice, il volume e la velocità della corrente, la topografia ecc. costituiscono le sue cause e condizioni generanti. Tutte le cose, non solo una fiamma e un vortice, vengono a esistere tramite cause e condizioni. Qualunque cosa l’universo per solida che possa sembrare è esattamente come un vortice o una fiamma. La solidità è una questione di gradi. Questo è un fatto facilmente comprensibile da noi che viviamo nell’epoca della scienza». Uchiyama "Zen to ghenzai bunmei" [Zen e civilizzazione moderna]

Ciò che noi chiamiamo io, cui diamo una realtà continua e mutabile dalla nascita alla morte (se non prima e oltre), non sfugge al medesimo principio di impermanenza e di origine condizionata Basta osservare il processo di nascita e crescita di un bambino. Ogni giorno cambia sotto i nostri occhi: cambia espressione. carattere, modo di comportarsi, peso, forma ecc. Il cambiamento di un adulto è più lento, ma non meno reale. Cosa c’è in comune fra l’io che ero da infante e l’io che sono ora? Non è solo la forma fisica a mutare, ma anche quella mentale. Ciò che ieri piaceva non piace più, cambiano le idee, gli atteggiamenti, lo stile di vita. In tutto ciò come affermare un io sostanziale e immutabile? Eppure, come negare che esista un sé composto di innumerevoli aggregati? Come negare un filo conduttore, anche là dove non si vedono che frammentarietà e discontinuità?
Dice un’antica scrittura buddista:
«Colui che vede l’aggregarsi del mondo non coltiva un’idea nichilista dell’universo. Colui che vede l’estinguersi del mondo non concepisce l’idea dell’esistenza reale dell’universo. Vedere tutte le come reali è una visione estrema. Vedere che nulla è reale è l’altra visione estrema. Buddha, l’Illuminato, si discosta da entrambi gli estremi e, imboccando la via di mezzo, predica la giusta legge. Vale a dire: Questo esiste e perciò quello esiste. Questo sorge e perciò quello sorge»

Questo passo esprime magnificamente lo spirito del buddismo Mahayana, e indica la via per un giusto modo di intendere e vivere la realtà. La Via di mezzo insegnata da Budda indica il processo di autosviluppo della forza vitale universale, che non dobbiamo intendere come entità immutabile, né come non-essere, niente. Nello stesso tempo, non è uno sforzo ambiguo di mantenersi a metà fra due visioni estreme, dando un colpo al cerchio e uno alla botte. Si tratta invece di scartare, per averle comprese, entrambe le concezioni; di superarle e di vivere consapevolmente lasciando che la forza vitale universale funzioni pienamente.


Tratto da "Eihei Doghen, il profeta dello Zen" , di Jiso Forzani, EDB 1997